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Intervista Juan Carlos Rulfo

Juan Carlos Rulfo è regista, sceneggiatore e produttore.

Il suo sguardo fortemente immaginativo lo ha portato a realizzare alcune opere che raccontano in modo sensibile e innovativo la complessità del suo paese, immenso e complicato, il Messico.

Juan Carlos Rulfo mentre filma.
  • versione italiana

pubblicato il: 25 ottobre 2016

pdf Retrospettiva e intervista a Juan Carlos Rulfo

È stato insignito di numerosi premi e riconoscimenti internazionali tra cui ricordiamo la partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1995 e il Gran Premio della Giuria al Sundance Festival nel 2006.

Suo padre era Juan Rulfo lo scrittore (ma anche sceneggiatore e fotografo) celeberrimo in America Latina, tra i protagonisti della nuova letteratura del secondo Novecento, insieme a Gabriel García Márquez, Julio Cortázar… Il suo romanzo “Pedro Paramo” è considerato una pietra miliare del realismo magico. Nel 2016 ricorrono 30 anni dalla morte del grande scrittore.

Juan Rulfo in questi giorni si trova a Trieste, ospite del XXXI Festival del Cinema latino americano, che gli ha dedicato una Retrospettiva.

Rulfo ricopre anche il ruolo Presidente della Giuria del Concorso Ufficiale del Festival.

 

PROGRAMMA e ORARI dei film di Juan Carlos Rulfo:

 

INTERVISTA A JUAN CARLOS RULFO

(a cura dell’Ufficio stampa del Festival)

 

Come e per quali ragioni si è avvicinato al cinema?

“Per me mio padre non era uno scrittore famoso, era mio padre e basta. Quando morì ci fu una netta cesura nella mia vita, come accade a ognuno che perda un genitore. Andai dove era nato e cresciuto, in un piccolo villaggio dello stato di Jalisco, in cerca di chi potesse raccontarmi di lui. Stavo studiando comunicazione, non ero un cineasta e non volevo fare nessun film, ci andai e basta. Incontrai i vecchi, che di mio padre non si ricordavano per niente, ma ricordavano mio nonno. Cominciai a parlare lungamente con loro e ad ascoltare le loro storie. Furono giorni di immersione completa nelle storie. Sorseggiavo con loro mezcal (il distillato di agave, tradizionale messicano - la tequila è invenzione successiva ndr) e le loro parole avevano su di me un effetto psichedelico. Fui folgorato dall’efficacia narrativa di quei racconti.

 

Nacque così nel 1994 il suo primo lavoro “El abuelo Cheno y otras historias” (“Il nonno Cheno e altre storie”) che nel 1995 partecipò al Festival del cinema di Venezia nella sezione Finestra sulle Immagini

“Si. Tornai a casa e decisi che avrei studiato cinema. La mai tesi di laurea fu quel film. La cosa interessante non era “il nonno” ma le “altre storie”. Ne uscì un mosaico di una comunità che raccoglieva memorie ma parlava anche delle loro vite presenti.

 

Questa centralità del racconto dice che esiste una relazione stretta tra cinema e letteratura

La relazione c’è. Mio padre scriveva sceneggiature, inventava storie. Io non sono un inventore di storie, ma ho capito che raccogliendo le storie degli altri, lasciando libero il loro parlare, accumulo un patrimonio che poi posso, a mia volta, raccontare creativamente. È una gioia e un divertimento il montaggio. Il momento creativo, che conferisce un senso al tutto. È come inventare il racconto dei racconti, in un certo senso.

 

Le sue opere sono documentari. Cosa rappresenta per lei il documentario?

Partiamo dai più noti, i documentari di National Geographic. Hanno finalità legittimamente descrittive. Io invece vedo il documentario come un frullatore in cui mettere dentro quello che hai visto, ascoltato, raccolto per estrarne un succo finale che non ha nulla a che vedere con una “descrizione”. Il mio documentario non è un reportage, è la ricerca di una narrazione. È cercare piccole pepite d’oro e scoprire come tenerle assieme.

 

Oggi il Messico viene presentato spesso come luogo problematico, schiacciato dalla piaga del narcotraffico. Che prospettive vede nel paese?

Un grosso problema per il Messico è confinare con gli Stati Uniti. Tu parti dal sud del paese dove sono presenti decine e centinaia di comunità, di lingue, di ricchezza antropologica. Solo lo stato di Oaxaca conta quasi 500 lingue indigene, tuttora parlate. Poi mano mano che sali verso Nord la ricchezza si assottiglia fino a giungere al deserto oltre il quale ci sono gli Stati Uniti. Accanto a quel deserto, nelle terre più lontane dalla vitalità del paese è nato il narcotraffico. Che ora è potente. C’è la “narcocultura” che enfatizza la vita “ai limiti” di chi è implicato con quel mondo. D’altra parte in un paese in cui la povertà è ancora molto diffusa, in cui magari non hai nulla da mangiare se ti offrono 3000 pesos (circa 100 euro) per uccidere qualcuno tu lo fai. Non hai chance. È terribile.

Ma il Messico non è solo questo. Venite in Messico. Non vi succederà nulla. Non vi spareranno e starete bene. Il paese è molto simile, per abitudini, all’Italia.

E poi qualcosa si sta muovendo. Ci sono le comunità locali che si stanno risvegliando. Le nuove tecnologie aiutano molto nello stare in contatto e nel raccontarsi, darsi un’identità. Rimanere nelle proprie terre e capire che lì si può vivere bene. Un processo lungo, anche perchè in Messico c’è stato quasi un secolo di totale egemonia del PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale) che ha forgiato una logica assistenzialista e immobilista. Ora però le cose stanno lentamente cambiando. E in questo l’educazione, un processo che va oltre la scuola, ha un ruolo fondamentale.

 

Può fare qualche esempio di questa rinascita?

In Chiapas c’è un nuovo territorio. Da 10 anni ci sono le scuole indigene, nelle comunità. E la vita quotidiana appartiene nuovamente a chi vive quei luoghi. Sono tornati artefici delle loro vite. Anche in Guerrero cambiano le cose. E i fatti recenti della “sparizione” dei 43 studenti dimostrano che c’è un grande desiderio di cambiare in meglio le proprie vite. Di decidere sulle proprie vite.

 

Il cinema cosa può fare in questo contesto?

Può fare la sua parte, ma non in senso neorealista. Un cinema di pura testimonianza

non fa immaginare soluzioni. Atterrisce e deprime. Mentre il cinema deve aprire la visione. Deve spingere verso un futuro diverso. Per questo bisogna che l’energia delle persone filmate invada la pellicola, che non ci sia un uso didattico del racconto. Che si possa “immaginare” e non solo “vedere e registrare”.

 

Lei è già stato in Italia, cosa pensa del nostro Paese e come le sembra Trieste dove arriva per la prima volta?

Quando venni in Italia la prima volta e andai in Sicilia pensai che avrei voluto sposare un’italiana. Mi piace la vostra lingua e credo che ci siano molti punti di vicinanza. E poi questo è il paese della storia, del patrimonio artistico. Trieste non la conosco ma mi sembra una bella città e spero avrò modo di conoscerla meglio in questi giorni.